
Di notte, quando il corpo si abbandona al sonno, la mente prende altre strade. I sogni – quei racconti notturni strani e spesso misteriosi – ci visitano come ospiti silenziosi, portando con sé messaggi in codice, immagini enigmatiche, desideri sospesi. A volte ci svegliamo con il cuore che batte più forte, confusi, emozionati o inquieti, altre volte ricordiamo soltanto qualche immagine confusa o,
ancora, ricordiamo un sogno apparentemente legato alla nostra quotidianità eppure ci disturba l'emozione che lo accompagna. Anche quando sembrano assurdi o lontani da noi, i sogni hanno qualcosa da dirci;
Freud scriveva che il sogno è "la via regia che conduce all’inconscio". Non è solo "pensare di notte", ma un’esperienza psichica profonda: una narrazione intima che sfugge al controllo della coscienza e, per questo motivo, ascoltare i sogni è una forma di cura poiché il sogno è linguaggio. Un linguaggio per il quale non esiste un dizionario, ma che ha bisogno di essere esplorato con rispettosa curiosità. I sogni parlano per immagini, simboli, atmosfere. Questi frammenti di verità, che la coscienza da sola non riesce a contenere, possono darci preziose chiavi di apertura per i cassetti della psiche affinché possiamo accedere ai suoi contenuti latenti offrendo spunti preziosi per una maggiore comprensione di sé.

Durante il percorso terapeutico, i sogni iniziano a emergere; a volte all’improvviso, altre volte come un filo sottile che accompagna il processo. Riporto un sogno di una mia paziente, che chiamerò Elisa (nome di fantasia). Una ragazza silenziosa, contenuta, abituata a controllare le emozioni e occupare poco spazio nel mondo, in seduta parlava poco di sé, e ogni volta che ci avvicinavamo a qualcosa di doloroso, la voce le si spegneva quasi del tutto. Un pomeriggio entrò nello studio e mi disse di aver fatto un sogno strano: “Mi trovo a casa mia ma non era proprio casa mia, le stanze erano diverse. In particolare una porta era murata, e io cercavo di aprirla, ma non ci riuscivo anche se, ad essere sincera, non ci mettevo tutta la mia forza. Sentivo che dietro la porta c’era qualcosa di importante, ma avevo paura, mi sono svegliata spaventata”
Non ci soffermammo ad analizzare il sogno subito ma lo lasciammo galleggiare nella stanza, asservandolo. Qualche seduta dopo, Elisa cominciò a parlarmi della sua infanzia e, in particolare, di un avvenimento risalente a quella fase della sua vita. Vedete la porta murata diventare simbolicamente la soglia di ciò che aveva sepolto per sopravvivere, come se l'avesse messo in uno scantinato? Una porta che lei non stava forzando davvero perché aveva paura di ritrovare dietro di essa ciò che sapeva aver nascosto. Il sogno aveva anticipato ciò, l'inconscio aveva parlato, suggerendole cosa portare in seduta, prima ancora che le parole fossero pronte.
Frammenti di verità
Da sempre ci si interroga sul significato dei sogni e da sempre si portano in scena i sogni, proprio come in “Mulholland Drive” di David Lynch, il sogno non è solo contenuto del film, ma la sua forma stessa: scene che si ripetono, identità che si confondono, personaggi che cambiano volto. È un film che funziona come un sogno: lo spettatore, come nel sogno, deve sentire più che capire; non ci dice cosa pensare, ma ci fa sentire che qualcosa si muove sotto la superficie. Lynch costruisce una narrazione che inizia in modo apparentemente coerente, ma presto si disfa: i personaggi cambiano identità, gli eventi si contraddicono, il tempo si confonde. È un sogno che parla d'amore, perdita, desiderio e colpa. E questo è ciò che spesso accade anche con i sogni in terapia: non vanno spiegati, ma ascoltati, attraversati, sentiti. Scendendo più nel dettaglio della trama, il film può essere letto come un sogno prodotto dalla mente della protagonista (Diane), che non riesce a tollerare la realtà della perdita, del fallimento e del dolore. Allora, come facciamo nei sogni, ricostruisce un mondo alternativo: una narrazione più accettabile, dove c’è ancora speranza, amore, possibilità. Ma il sogno non regge e allora l’inconscio spinge, forza le crepe del racconto. I personaggi sfuggono al controllo, le immagini diventano inquietanti. Come accade in alcuni sogni intensi, il desiderio e il senso di colpa si mescolano, e l’intero edificio psichico si sgretola.
Un altro esempio, che ci tengo a riportare, è l'album The Pavilion of Dreams di Harold Budd, un album ambient, quasi etereo, non narrativo. Sin dalle prime note, tutto si muove lentamente, come avvolto in una nebbia in cui tutti gli strumenti sembrano arrivare da lontano, da un altrove senza tempo. Non c’è tensione, non c’è direzione, solo fluire.
Mi piace riportare esempi artistici perché anche l'arte, in tutte le sue forme, può diventare esperienza e spazio trasformativo. Ho detto che i sogni non hanno dizionario e, appunto, possono essere decostruiti con altri strumenti (parole, immagini, suoni..). E quindi come si comprende un sogno? Non credo sia sempre necessario interpretarlo ma ascoltarlo, provare a raccontarlo insieme chiedendosi: che atmosfera aveva? Che sensazione o emozione ha lasciato? Quale immagine ha rimandato? In questo modo il sogno continua a lavorare dentro di noi, proprio come un film, ci rimane addosso dopo averlo visto. Sognare crea un contatto con la parte profonda di noi anche se non sempre ci dice ciò che vogliamo sapere o sentire ma, quasi sempre, ci porta dove abbiamo bisogno di guardare.
Crediti immagine
René Magritte, “La durée poignardée” (Il tempo pugnalato), 1938.
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